Al Teatro Ivo Chiesa di Genova una
serata corale per celebrare uno dei luoghi simbolo della cultura dell’ascolto.
Di Angelo De Negri
Gli scatti, di Roberta e Paola
Balduzzi, sono inseriti in modo casuale
Per molti è stato il primo vinile comprato, per altri una
scoperta casuale, per altri ancora un rifugio. Disco Club compie sessant’anni e
Genova risponde con una festa che è molto più di un concerto: una celebrazione
corale in cui musicisti, racconti e ricordi si intrecciano, restituendo il
senso profondo di un luogo che ha attraversato generazioni senza mai perdere la
propria anima.
Lo scorso lunedì 8 dicembre, il Teatro Nazionale Ivo Chiesa
ha ospitato l’evento conclusivo di quelli che sono stati ribattezzati “I tre
giorni del Condor di Disco Club”, iniziati con due giornate di Street Party
dentro e fuori lo storico negozio: il sabato con i dj set di Black Moses,
Beatshaker, The Tuesday Tapes e Luca De Gennaro e la domenica con il grande
talk show con interviste a clienti storici, ex commessi e ‘local heroes’ con
Antonio Vivaldi e Isabella Rizzitano.
Una serata speciale, quella di lunedì, capace di riempire
ogni ordine di posti e di mescolare, in platea, storici clienti, giovani
appassionati e addetti ai lavori. Un pubblico eterogeneo, specchio fedele della
storia di Disco Club, chiamato a partecipare non solo a un evento musicale, ma
a un racconto dal vivo in cui sul palco si sono alternati musicisti, storie e telefonate,
componendo un omaggio collettivo alla musica e alla cultura dell’ascolto.
Fondato a metà degli anni Sessanta, Disco Club non è soltanto il negozio di dischi più longevo di Genova, ma un vero e proprio
presidio culturale. Tra i suoi scaffali si sono incrociati gusti, generazioni e
linguaggi diversi, facendo del negozio un punto di riferimento per chi cercava
non solo un disco, ma un confronto, un consiglio, una visione. In un’epoca in
cui l’ascolto tende sempre più a diventare solitario e smaterializzato, la sua
storia racconta invece di una comunità costruita attorno alla musica, giorno
dopo giorno, per sessant’anni.
Al centro di questa storia c’è Giancarlo Balduzzi, per
tutti semplicemente Gian. Proprietario di Disco Club e figura ormai
inseparabile dal negozio stesso, Gian non è mai stato un semplice commerciante:
piuttosto un mediatore culturale, un ascoltatore esigente, a volte ruvido,
spesso ironico, sempre autentico. Il suo modo diretto di stare dietro al
bancone, fatto di consigli illuminanti quanto di prese di posizione nette,
comprese le celebri “espulsioni” di clienti, ha contribuito a costruire nel
tempo un’identità forte e riconoscibile, trasformando Disco Club in un luogo
dove la musica non si consuma, ma si discute, si difende e si vive.
La serata si è aperta nel segno della musica, ma non prima di aver riportato idealmente il pubblico là dove tutto ha avuto origine. Poco prima dell’ingresso dei musicisti, sul palco è stato proiettato un breve video dentro il mondo di Disco Club: una sequenza di testimonianze, citazioni e frammenti di quotidianità capaci di restituire l’atmosfera unica del negozio, fatta di relazioni autentiche. Tra i momenti più emblematici, anche una delle celebri “espulsioni” di un cliente da parte di Gian, episodio accolto con sorrisi e complicità, come si fa con le storie che fanno parte di una mitologia collettiva.
Il palco è rimasto nelle mani di Paolo
Bonfanti, che ha proseguito inizialmente in solitaria, confermando ancora
una volta la sua cifra fatta di misura, esperienza e profonda conoscenza delle
radici musicali. A poco a poco, la sua esibizione si è trasformata in un
momento corale con l’ingresso di parte dei Red Wine, fino a lasciare poi
spazio alla band al completo.
Rimasti soli sul palco, i Red Wine hanno costruito uno dei
passaggi più riconoscibili della serata, proponendo tre cover in versione
bluegrass che hanno attraversato epoche e immaginari diversi: Tom Petty, Bob
Dylan e Woodstock, brano firmato da Joni Mitchell ma entrato nella
memoria collettiva nella versione di Crosby, Stills, Nash & Young. Un
omaggio che è stato anche una dichiarazione di poetica, arricchito dai
virtuosismi strumentali di Martino Coppo al mandolino e Silvio
Ferretti al banjo, capaci di catturare l’attenzione del pubblico con
precisione e naturalezza.
Il clima è poi cambiato con l’ingresso dei Motus Laevus, duo formato da Tina
Omerzo (tastiere e voce) ed Edmondo Romano (fiati), che ha portato
sul palco una world music dalle forti influenze balcaniche. Il tradizionale
macedone Brala Jana kapini si è trasformato gradualmente in Hairless
Heart dei Genesis, in una fusione sorprendente e intensa che ha
rappresentato uno dei momenti emotivamente più forti dell’intera serata.
A tenere insieme i diversi momenti della serata, alternando
musica e parole, sono stati Antonio Vivaldi e Danilo Di Termini,
chiamati a condurre uno spettacolo costruito come un racconto collettivo. Con
interventi misurati e puntuali, i due hanno accompagnato il pubblico attraverso
le varie esibizioni, introducendo artisti e letture senza mai sovrapporsi alla
musica, ma contribuendo a dare ritmo e coerenza a una scaletta ricca e
articolata.
A scandire ulteriormente il ritmo
della serata, intervallandosi alle diverse fasi musicali, sono state le letture
affidate alla voce dell’attrice Barbara Moselli. Tre passaggi scritti
dagli stessi Antonio Vivaldi e Danilo Di Termini, insieme a Marco
Sideri, hanno dato forma a una galleria di ritratti e situazioni che
chiunque abbia frequentato Disco Club ha potuto riconoscere con immediata
complicità.
Dal compratore compulsivo,
figura quasi epica nella sua frenesia di accumulo, al jazzofilo,
presenza colta e un po’ laterale, raccontato con affettuosa ironia come
leggermente emarginato nel microcosmo del negozio, fino ad arrivare alla
costruzione del “mito di Gian”, collocato nella storia di Genova in un
tempo quasi leggendario, anteriore persino alla costruzione del grattacielo
della SIP. Interpretati con misura e intelligenza da Moselli, questi testi
hanno funzionato non come semplici intermezzi, ma come vere e proprie chiavi di
lettura dell’universo Disco Club, rafforzando il dialogo continuo tra parola,
musica e memoria.
Accanto ai testi più strutturati, non sono mancati momenti di
puro divertimento legati alle fedeli trasposizioni delle telefonate più
strampalate ricevute da Gian nel corso degli anni. Episodi tutti
rigorosamente veri, anche quando sembrano sfiorare l’inverosimile, rievocati
con precisione e gusto per il dettaglio: dall’inconfondibile apertura con il
prolungato «Discocluuuuub…» fino all’inevitabile epilogo, quasi sempre
segnato dal secco click della cornetta riagganciata da Gian.
Questi inserti, accolti con risate e riconoscimenti immediati da parte del
pubblico, hanno funzionato come brevi sketch teatrali capaci di restituire uno
degli aspetti più umani e irresistibili del negozio: quel confine sottile tra
pazienza, ironia e insofferenza che ha contribuito, nel tempo, a costruire una
cifra stilistica unica e profondamente genovese.
Con l’ingresso sul palco di Federico
Sirianni e Max Manfredi, la serata ha trovato uno dei suoi nuclei
più riconoscibili: quello della canzone d’autore. Due voci diverse ma
complementari, accomunate da un’idea di scrittura esigente e profondamente
legata alla parola, presto raggiunte da Edmondo Romano ai fiati e,
successivamente, da Aldo De Scalzi alle tastiere, in un crescendo che ha
arricchito ulteriormente l’intensità del momento.
Tra i brani eseguiti, hanno lasciato il segno “Il Santo” di Sirianni e “Il
treno per Kukuwok” di Manfredi, capaci di catturare l’attenzione del
pubblico con la forza delle immagini e la precisione del racconto. Non è
mancato anche un omaggio sentito a Leonard Cohen, riferimento dichiarato
e naturale per chi concepisce la canzone come spazio di profondità e visione.
Il testimone è poi passato a Roberta
Barabino, che con la sua voce vellutata ha portato sul palco un
momento di intima delicatezza. Accompagnata da Tristan Martinelli, ha
proposto il suo brano “Uovo in bilico”, seguito da un tributo ai Velvet
Underground affidato a “Candy Says” e “After Hours”,
chiudendo questo segmento con una scelta che ha saputo unire fragilità,
eleganza e memoria musicale.
A seguire è stato il turno di Aldo De Scalzi e Pivio, protagonisti di un segmento dedicato alle loro musiche per il cinema, premiate e riconosciute ben oltre i confini cittadini. Sul palco, insieme a loro, una band di quattro musicisti, arricchita dall’apporto di Edmondo Romano ai fiati, ha dato corpo a una serie di brani capaci di restituire tutta la forza evocativa del loro lavoro per le colonne sonore.
Accanto a loro, anche le voci di Armanda De Scalzi,
figlia di Vittorio e in dolce attesa, che si è esibita in un brano in spagnolo e
di Matteo Merli, impegnato in un brano in genovese che ha
rafforzato ulteriormente il legame tra musica, territorio e memoria. Ma il
momento emotivamente più intenso è arrivato con l’esecuzione di “Sullo
stesso piano”, il brano che Aldo De Scalzi ha dedicato al fratello Vittorio.
Un passaggio di grande commozione, condivisa dal pubblico e amplificata dalla
partecipazione di Paolo Bonfanti alla chitarra, che ha
trasformato l’omaggio in uno dei vertici emotivi dell’intera serata.
Non poteva mancare, nel corso della
serata, anche uno spazio dedicato al gioco serio delle classifiche, con la
proclamazione del “Disco dei dischi di Disco Club!” votato dai clienti
del negozio con tanto di schede elettorali ed urna. Un momento accolto con
partecipazione e, com’era prevedibile, anche con qualche sonora contestazione
dal pubblico, segno inequivocabile di quanto le passioni musicali restino
materia viva e tutt’altro che pacificata. A spuntarla è
stato “The Dark Side of the Moon” dei Pink Floyd, incoronato
davanti a “In the Court of the Crimson King” dei King Crimson e a
“The Velvet Underground & Nico”. Un verdetto che ha diviso la platea, tra applausi convinti e
mugugni ironici, trasformando la classifica in un altro momento di confronto
collettivo, perfettamente in linea con lo spirito di Disco Club.
A chiudere il cerchio delle
esibizioni è tornato sul palco Beppe Gambetta, presenza chiave della
serata e figura capace, da sempre, di muoversi con naturalezza tra mondi
diversi. Più che una semplice scaletta, il suo intervento è stato un racconto
musicale sospeso tra ironia e consapevolezza, in cui lingue e tradizioni si sono
intrecciate senza soluzione di continuità.
Emblematico in questo senso “Un
Panino”, brano che nella versione inglese fa dialogare dal paradiso Woody
Guthrie e Pete Seeger, mentre in quella italiana affida la voce a Fabrizio
De André, intento a osservare e commentare il mondo di oggi dalla sua
nuvola. Un gioco di prospettive solo in apparenza leggero, che racchiude invece
uno sguardo critico sul presente. Gambetta ha chiuso la serata nel segno di
quell’equilibrio tra apertura internazionale e radicamento locale che
attraversa tanto la sua musica quanto la storia di Disco Club.
Il gran finale ha richiamato sul
palco tutti gli artisti, i presentatori e Giancarlo Balduzzi, per
una dedica collettiva che ha sintetizzato alla perfezione lo spirito della
serata. “Hey Gian”, versione targata Disco Club di Hey Jude dei Beatles,
è diventata un abbraccio musicale condiviso, più che una semplice cover: un
momento leggero, ironico e profondamente sentito.
Il coinvolgimento del pubblico,
chiamato a partecipare al ritornello in modo spontaneo e corale, ha trasformato
la conclusione in una festa vera e propria, chiudendo l’evento nel segno
dell’allegria e della complicità.
Uscendo dal teatro, più che la
memoria dei singoli brani resta la sensazione di aver assistito a qualcosa di
raro: una comunità emozionata che si riconosce attorno alla musica. Disco Club
compie sessant’anni restando fedele a un’idea semplice e radicale: ascoltare,
discutere, scegliere. È forse questo il segreto della sua longevità, ed è il
motivo per cui, ancora oggi, quel bancone continua a essere un punto di
incontro e non un confine.


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