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venerdì 19 dicembre 2025

“Hey Gian”: sessant’anni di Disco Club tra musica, storie e comunità



Al Teatro Ivo Chiesa di Genova una serata corale per celebrare uno dei luoghi simbolo della cultura dell’ascolto.

Di Angelo De Negri


Gli scatti, di Roberta e Paola Balduzzi, sono inseriti in modo casuale


Per molti è stato il primo vinile comprato, per altri una scoperta casuale, per altri ancora un rifugio. Disco Club compie sessant’anni e Genova risponde con una festa che è molto più di un concerto: una celebrazione corale in cui musicisti, racconti e ricordi si intrecciano, restituendo il senso profondo di un luogo che ha attraversato generazioni senza mai perdere la propria anima.

Lo scorso lunedì 8 dicembre, il Teatro Nazionale Ivo Chiesa ha ospitato l’evento conclusivo di quelli che sono stati ribattezzati “I tre giorni del Condor di Disco Club”, iniziati con due giornate di Street Party dentro e fuori lo storico negozio: il sabato con i dj set di Black Moses, Beatshaker, The Tuesday Tapes e Luca De Gennaro e la domenica con il grande talk show con interviste a clienti storici, ex commessi e ‘local heroes’ con Antonio Vivaldi e Isabella Rizzitano.

Una serata speciale, quella di lunedì, capace di riempire ogni ordine di posti e di mescolare, in platea, storici clienti, giovani appassionati e addetti ai lavori. Un pubblico eterogeneo, specchio fedele della storia di Disco Club, chiamato a partecipare non solo a un evento musicale, ma a un racconto dal vivo in cui sul palco si sono alternati musicisti, storie e telefonate, componendo un omaggio collettivo alla musica e alla cultura dell’ascolto.

Fondato a metà degli anni Sessanta, Disco Club non è soltanto il negozio di dischi più longevo di Genova, ma un vero e proprio presidio culturale. Tra i suoi scaffali si sono incrociati gusti, generazioni e linguaggi diversi, facendo del negozio un punto di riferimento per chi cercava non solo un disco, ma un confronto, un consiglio, una visione. In un’epoca in cui l’ascolto tende sempre più a diventare solitario e smaterializzato, la sua storia racconta invece di una comunità costruita attorno alla musica, giorno dopo giorno, per sessant’anni.

Al centro di questa storia c’è Giancarlo Balduzzi, per tutti semplicemente Gian. Proprietario di Disco Club e figura ormai inseparabile dal negozio stesso, Gian non è mai stato un semplice commerciante: piuttosto un mediatore culturale, un ascoltatore esigente, a volte ruvido, spesso ironico, sempre autentico. Il suo modo diretto di stare dietro al bancone, fatto di consigli illuminanti quanto di prese di posizione nette, comprese le celebri “espulsioni” di clienti, ha contribuito a costruire nel tempo un’identità forte e riconoscibile, trasformando Disco Club in un luogo dove la musica non si consuma, ma si discute, si difende e si vive.

La serata si è aperta nel segno della musica, ma non prima di aver riportato idealmente il pubblico là dove tutto ha avuto origine. Poco prima dell’ingresso dei musicisti, sul palco è stato proiettato un breve video dentro il mondo di Disco Club: una sequenza di testimonianze, citazioni e frammenti di quotidianità capaci di restituire l’atmosfera unica del negozio, fatta di relazioni autentiche. Tra i momenti più emblematici, anche una delle celebri “espulsioni” di un cliente da parte di Gian, episodio accolto con sorrisi e complicità, come si fa con le storie che fanno parte di una mitologia collettiva.


Subito dopo, la musica ha preso la parola. Ad aprire ufficialmente i festeggiamenti è stato Disco Club, brano composto da Beppe Gambetta durante il lock down del 2020 sulle note di Abilene, adattamento che già nel titolo porta con sé una nota di ironia tutta locale: a Genova, la pronuncia di Abilene ha un’inevitabile assonanza con “belin”. Gambetta ha eseguito il brano insieme a Paolo Bonfanti, dando il via all’evento con un momento che è stato insieme omaggio, dichiarazione d’amore e perfetto biglietto da visita per una celebrazione pensata fin dall’inizio come racconto condiviso.

Il palco è rimasto nelle mani di Paolo Bonfanti, che ha proseguito inizialmente in solitaria, confermando ancora una volta la sua cifra fatta di misura, esperienza e profonda conoscenza delle radici musicali. A poco a poco, la sua esibizione si è trasformata in un momento corale con l’ingresso di parte dei Red Wine, fino a lasciare poi spazio alla band al completo.

Rimasti soli sul palco, i Red Wine hanno costruito uno dei passaggi più riconoscibili della serata, proponendo tre cover in versione bluegrass che hanno attraversato epoche e immaginari diversi: Tom Petty, Bob Dylan e Woodstock, brano firmato da Joni Mitchell ma entrato nella memoria collettiva nella versione di Crosby, Stills, Nash & Young. Un omaggio che è stato anche una dichiarazione di poetica, arricchito dai virtuosismi strumentali di Martino Coppo al mandolino e Silvio Ferretti al banjo, capaci di catturare l’attenzione del pubblico con precisione e naturalezza.
Il clima è poi cambiato con l’ingresso dei Motus Laevus, duo formato da Tina Omerzo (tastiere e voce) ed Edmondo Romano (fiati), che ha portato sul palco una world music dalle forti influenze balcaniche. Il tradizionale macedone Brala Jana kapini si è trasformato gradualmente in Hairless Heart dei Genesis, in una fusione sorprendente e intensa che ha rappresentato uno dei momenti emotivamente più forti dell’intera serata.

A tenere insieme i diversi momenti della serata, alternando musica e parole, sono stati Antonio Vivaldi e Danilo Di Termini, chiamati a condurre uno spettacolo costruito come un racconto collettivo. Con interventi misurati e puntuali, i due hanno accompagnato il pubblico attraverso le varie esibizioni, introducendo artisti e letture senza mai sovrapporsi alla musica, ma contribuendo a dare ritmo e coerenza a una scaletta ricca e articolata.

A scandire ulteriormente il ritmo della serata, intervallandosi alle diverse fasi musicali, sono state le letture affidate alla voce dell’attrice Barbara Moselli. Tre passaggi scritti dagli stessi Antonio Vivaldi e Danilo Di Termini, insieme a Marco Sideri, hanno dato forma a una galleria di ritratti e situazioni che chiunque abbia frequentato Disco Club ha potuto riconoscere con immediata complicità.

Dal compratore compulsivo, figura quasi epica nella sua frenesia di accumulo, al jazzofilo, presenza colta e un po’ laterale, raccontato con affettuosa ironia come leggermente emarginato nel microcosmo del negozio, fino ad arrivare alla costruzione del “mito di Gian”, collocato nella storia di Genova in un tempo quasi leggendario, anteriore persino alla costruzione del grattacielo della SIP. Interpretati con misura e intelligenza da Moselli, questi testi hanno funzionato non come semplici intermezzi, ma come vere e proprie chiavi di lettura dell’universo Disco Club, rafforzando il dialogo continuo tra parola, musica e memoria.

Accanto ai testi più strutturati, non sono mancati momenti di puro divertimento legati alle fedeli trasposizioni delle telefonate più strampalate ricevute da Gian nel corso degli anni. Episodi tutti rigorosamente veri, anche quando sembrano sfiorare l’inverosimile, rievocati con precisione e gusto per il dettaglio: dall’inconfondibile apertura con il prolungato «Discocluuuuub…» fino all’inevitabile epilogo, quasi sempre segnato dal secco click della cornetta riagganciata da Gian.
Questi inserti, accolti con risate e riconoscimenti immediati da parte del pubblico, hanno funzionato come brevi sketch teatrali capaci di restituire uno degli aspetti più umani e irresistibili del negozio: quel confine sottile tra pazienza, ironia e insofferenza che ha contribuito, nel tempo, a costruire una cifra stilistica unica e profondamente genovese.

Con l’ingresso sul palco di Federico Sirianni e Max Manfredi, la serata ha trovato uno dei suoi nuclei più riconoscibili: quello della canzone d’autore. Due voci diverse ma complementari, accomunate da un’idea di scrittura esigente e profondamente legata alla parola, presto raggiunte da Edmondo Romano ai fiati e, successivamente, da Aldo De Scalzi alle tastiere, in un crescendo che ha arricchito ulteriormente l’intensità del momento.
Tra i brani eseguiti, hanno lasciato il segno “Il Santo” di Sirianni e “Il treno per Kukuwok” di Manfredi, capaci di catturare l’attenzione del pubblico con la forza delle immagini e la precisione del racconto. Non è mancato anche un omaggio sentito a Leonard Cohen, riferimento dichiarato e naturale per chi concepisce la canzone come spazio di profondità e visione.

Il testimone è poi passato a Roberta Barabino, che con la sua voce vellutata ha portato sul palco un momento di intima delicatezza. Accompagnata da Tristan Martinelli, ha proposto il suo brano “Uovo in bilico”, seguito da un tributo ai Velvet Underground affidato a “Candy Says” e “After Hours”, chiudendo questo segmento con una scelta che ha saputo unire fragilità, eleganza e memoria musicale.

A seguire è stato il turno di Aldo De Scalzi e Pivio, protagonisti di un segmento dedicato alle loro musiche per il cinema, premiate e riconosciute ben oltre i confini cittadini. Sul palco, insieme a loro, una band di quattro musicisti, arricchita dall’apporto di Edmondo Romano ai fiati, ha dato corpo a una serie di brani capaci di restituire tutta la forza evocativa del loro lavoro per le colonne sonore.

Accanto a loro, anche le voci di Armanda De Scalzi, figlia di Vittorio e in dolce attesa, che si è esibita in un brano in spagnolo e di Matteo Merli, impegnato in un brano in genovese che ha rafforzato ulteriormente il legame tra musica, territorio e memoria. Ma il momento emotivamente più intenso è arrivato con l’esecuzione di “Sullo stesso piano”, il brano che Aldo De Scalzi ha dedicato al fratello Vittorio. Un passaggio di grande commozione, condivisa dal pubblico e amplificata dalla partecipazione di Paolo Bonfanti alla chitarra, che ha trasformato l’omaggio in uno dei vertici emotivi dell’intera serata.

Non poteva mancare, nel corso della serata, anche uno spazio dedicato al gioco serio delle classifiche, con la proclamazione del “Disco dei dischi di Disco Club!” votato dai clienti del negozio con tanto di schede elettorali ed urna. Un momento accolto con partecipazione e, com’era prevedibile, anche con qualche sonora contestazione dal pubblico, segno inequivocabile di quanto le passioni musicali restino materia viva e tutt’altro che pacificata. A spuntarla è stato “The Dark Side of the Moon” dei Pink Floyd, incoronato davanti a “In the Court of the Crimson King” dei King Crimson e a “The Velvet Underground & Nico”. Un verdetto che ha diviso la platea, tra applausi convinti e mugugni ironici, trasformando la classifica in un altro momento di confronto collettivo, perfettamente in linea con lo spirito di Disco Club.

A chiudere il cerchio delle esibizioni è tornato sul palco Beppe Gambetta, presenza chiave della serata e figura capace, da sempre, di muoversi con naturalezza tra mondi diversi. Più che una semplice scaletta, il suo intervento è stato un racconto musicale sospeso tra ironia e consapevolezza, in cui lingue e tradizioni si sono intrecciate senza soluzione di continuità.

Emblematico in questo senso “Un Panino”, brano che nella versione inglese fa dialogare dal paradiso Woody Guthrie e Pete Seeger, mentre in quella italiana affida la voce a Fabrizio De André, intento a osservare e commentare il mondo di oggi dalla sua nuvola. Un gioco di prospettive solo in apparenza leggero, che racchiude invece uno sguardo critico sul presente. Gambetta ha chiuso la serata nel segno di quell’equilibrio tra apertura internazionale e radicamento locale che attraversa tanto la sua musica quanto la storia di Disco Club.

Il gran finale ha richiamato sul palco tutti gli artisti, i presentatori e Giancarlo Balduzzi, per una dedica collettiva che ha sintetizzato alla perfezione lo spirito della serata. “Hey Gian”, versione targata Disco Club di Hey Jude dei Beatles, è diventata un abbraccio musicale condiviso, più che una semplice cover: un momento leggero, ironico e profondamente sentito.

Il coinvolgimento del pubblico, chiamato a partecipare al ritornello in modo spontaneo e corale, ha trasformato la conclusione in una festa vera e propria, chiudendo l’evento nel segno dell’allegria e della complicità.

Uscendo dal teatro, più che la memoria dei singoli brani resta la sensazione di aver assistito a qualcosa di raro: una comunità emozionata che si riconosce attorno alla musica. Disco Club compie sessant’anni restando fedele a un’idea semplice e radicale: ascoltare, discutere, scegliere. È forse questo il segreto della sua longevità, ed è il motivo per cui, ancora oggi, quel bancone continua a essere un punto di incontro e non un confine.









Collins e Rutherford sul Ciao 2001 del 19 dicembre 1982


Su Ciao 2001 del 19 dicembre 1982, articolo "singolo" sull'uscita in contemporanea dei due dischi solisti di Phil Collins e Mike Rutherford dei Genesis.
Il primo pubblica "Hello A Must Be Going", che con la cover delle Supremes "You Can'y Hurry Love", sbanca le classifiche dei singoli  .
Il tiolo dell'album è preso da una canzone dei Fratelli Marx, del 1930!
Anche per "Pluto" Rutherford si tratta del secondo album "Acting Very Strange", tra i musicisti il batterista dei Police Stewart Copeland.
Di tutto un Pop!
Wazza





giovedì 18 dicembre 2025

Genesis, dicembre 1973: l'audio del concerto al Roxy Theater di Los Angeles e qualche immagine

  
Il 18 dicembre 1973 i Genesis, in tour per la prima volta in USA, ottengono uno strepitoso successo suonando al Roxy Theater di Los Angeles.
Per festeggiare l'evento, dopo il concerto, si tiene un ricevimento all’Hollywood Restaurant (vedi photogallery)
...di tutto un  Pop
Wazza






LE ORME su Ciao 2001 nel dicembre 1973

LE ORME su Ciao 2001 nel dicembre 1973, anno in cui uscì “Felona e Sorona”, concept album imperniato su una storia assai fantasiosa, quella di due pianeti immaginari, contrapposti e complementari, chiamati "Felona" e "Sorona". Mentre Felona viene illuminato dalla luce del sole, Sorona è immerso nelle tenebre.

A conferma dell'importanza del disco per la carriera del gruppo, si ricorda che a distanza di quasi quarant'anni l'album rientrò in classifica alla posizione numero 79 della classifica ufficiale FIMI.




 




mercoledì 17 dicembre 2025

Era il 17 dicembre del 1976: "Wind and Wuthering" vedeva la luce...


Usciva il 17 dicembre 1976 "Wind and Wuthering", ultimo album dei Genesis con Steve Hackett. Il titolo sembra che sia stato preso da un brano di Hackett, "The house of four wind", e dal titolo del romanzo "Wuthering Heights".

Registrato nei Paesi Bassi, per problemi di defiscalizzazione, nonostante fosse uscito in pieno periodo "punk" superò le vendite del precedente.
La copertina disegnata da Colin Elgie rimarrà l'ultima in stile nostalgico e autunnale nella futura produzione della band.


All'epoca fu considerato un prodotto di secondo piano rispetto ai capolavori che lo avevano preceduto, maa distanza di anni rimane un grande e nostalgico lavoro… consapevole di quello che sarebbe accaduto dopo!
Wazza 

Riascoltiamolo...







David Bowie: il 17 dicembre 1971 usciva “Hunky Dory

Usciva il 17 dicembre 1971 Hunky Dory”, quarto album di David Bowie, il disco che l’ha fatto conoscere in tutto il mondo. 

Di tutto un Pop!

Wazza

David Bowie photographed by Brian Ward, London, 1971

“Hunky Dory” sta per “Tutto OK” ed è il quarto album di un allora ventitreenne David Robert Jones, in arte Bowie, in cerca di celebrazione, ma anche di primo affrancamento, dalla Swinging London e i suoi eroi vicini e lontani (Syd Barrett, Bob Dylan, Iggy Pop, Velvet Underground…), nonché ancora alle prese con giovanili sfoggi di ambiguità sessuale (lui che è già padre di famiglia e futuro, ben corrisposto donnaiolo, altro che la posa da bionda Greta Garbo che ci ammannisce in copertina…). Vi riuscirà compiutamente nell’album successivo, il suo capolavoro “Ziggy Stardust”, sdoganando appieno un nuovo genere di rock, il glam, pregno di tutte le influenze di cui sopra, eppure brillantemente nuovo di zecca.

Ma se quest’opera non gode ancora della compattezza, della personalità, dell’alchimia perfetta di quella che seguirà, risulta essere per certo un’esimia raccolta di canzoni molto varie, quasi uniche nella loro incisiva profondità, talvolta imbellettata di lustrini e talvolta no, coniuganti il pop più esuberante e scintillante ad alcune tematiche urticanti e drammatiche, omaggianti Dylan, Reed, Warhol in una forma che brilla di luce propria e di sostanza musicale che travalicano gli stessi ispiratori, ancora senza un vero approdo autonomo, ma in ogni caso pregna di sostanza musicale e lirica.

La deviazione dal precedente lavoro “The Man Who Sold The World” è decisa. Le stesse tematiche, spesso e volentieri claustrofobiche ed oscure in quel disco, gli stessi disagi allora resi attraverso un chitarrismo elettroacustico asciutto e violento, qui vengono rivestiti di una irresistibile ed intelligente patina poppettara, che ha nel pianoforte di un versatile e agile Rick Wakeman lo strumento base. Il chitarrista di Bowie Mick Ronson, dominante e massimamente rumoroso nel precedente disco, è qui “retrocesso” ad interventi misurati e secondari, ma si rifà ampiamente grazie alla sua versatilità e preparazione musicale, curando i magniloquenti arrangiamenti orchestrali che forniscono un tocco unico e fondamentale all’opera. Un grande musicista, il compianto e mai abbastanza riconosciuto Ronson, in grado qui di scrivere partiture di intensità wagneriana e caricare il disco di decadente e intensa musicalità.

Il nascente gusto glam si avverte già nel timbro alterato della voce di David (filtri equalizzatori…o magari il nastro rallentato in fase di incisione…), assai più acuta e chioccia che nella realtà. E’ già la voce del futuro Ziggy Stardust, alle prese con una scaletta quasi tutta di ballate, per lo più pianistiche, di grande e variegata ispirazione, talché agli episodi molto spumeggianti e teatrali (“Oh You Pretty Things”, “Changes”, però sempre con testi tutt’altro che leggeri, e la cover “Fill Your Heart”) vengono intercalati a rancorose tiritere iperdylaniane (“Song For Bob Dylan” un vero e proprio omaggio, al di là della critica alle ultime cose del menestrello americano) oppure ad abissali sprofondamenti nel malessere personale (“The Bewlay Brothers”, riferita al fratello di Bowie ed ai suoi problemi psichici e allora magari anche a Syd Barrett, tesa e drammatica, vera superstite delle atmosfere del disco precedente… e bellissima).


Ci si stupisce ancora con tante altre e diverse cose, a cominciare da una bella presa in giro di Andy Warhol, con una ballata a lui intitolata e solcata dalla potente chitarra acustica a 12 corde del fido Ronson, e poi lo schizzo newyorkese di “Queen Bitch”, assolutamente a’la Velvet Underground, ma con a stretto seguito la tenerissima “Kooks”, una ninnananna dedicata al figlioletto, nella quale la fantastica voce di David assume convincenti toni paterni e protettivi.

Ed a proposito di voce, vi sono alfine in questo disco due fulgidi capolavori che dispiegano a tutta forza il grande talento esecutivo, oltre che compositivo, dell’artista. Il primo è celeberrimo e s’intitola “Life On Mars?”: molto di diverso che un episodio di fantascienza, è invece una straziante messa in scena di un’ordinaria fuga dalla realtà di una persona, che preferisce rifugiarsi in mondi paralleli e fittizi. La melodia è indimenticabile, Bowie la canta da padreterno, Ronson ci mette un’orchestra bella pesante, che comunque si ferma un attimo prima di risultare ridondante, ed insomma siamo al cospetto di quello che, per parecchia gente, è il suo capolavoro assoluto.

Il secondo gioiello è molto meno noto, ma ugualmente sfavillante. “Quicksand” possiede la perfezione formale e l’intensità ispirativa delle grandi e migliori ballate, con Bowie alle prese con le proprie incertezze e paure, con il suo/nostro inquietante lato oscuro.

Un’opera intensa e scorrevole, leggera e inquietante, ispirata, simbolo di un periodo in cui a Bowie riusciva proprio tutto, stava sbocciando compiutamente a livello artistico e si avviava a non avere rivali nel genere. Lo dimostrerà definitivamente col disco seguente, ma anche quest’album è fra gli indispensabili del rock, manifesto musicale di un artista fuoriclasse, in piena fase di messa a fuoco delle sue voglie e delle sue possibilità.

di Pier Paolo Farina










martedì 16 dicembre 2025